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From the catalog of the personal exhibition "Facing Histories",
Marcel Scheiner gallery, South Carolina, USA 2002


  • L'assunzione di una prospettiva differente sul contesto esistenziale e sociale nel quale si è nati e cresciuti, come è noto consente l'affiorare di visioni spesso dolorosamente lucide su ciò da cui si sono prese per scelta – come nel caso di Yumi Karasumaru - o per necessità le distanze. Non è un caso che dallo sguardo di molti artisti lontani dal proprio paese di origine, affiorino visioni innamorate e critiche allo stesso tempo, visioni impossibili a chi costruisce la propria visione tutta dall'interno senza aver compiuto questo passo.
    Yumi Karasumaru vive in Italia da diversi anni, il lavoro che ha realizzato in questi anni prende forma da un confronto continuo con il Giappone, la sua storia, ma anche il Giappone della sua famiglia e ciò che accade adesso. I quadri dell'artista nascono a partire dalle foto di famiglia, dalle foto di documentazione, a volte fotografie scattate da lei stessa come nei ritratti degli adolescenti. Il risultato è una forma ibrida, dove la memoria della pittura tradizionale giapponese coesiste con il clima pop, dove i colori belli non realistici creano a volte un corto circuito in relazione ai titoli e alla drammaticità dei soggetti rappresentati. Ma prima ancora dei soggetti rappresentati è attraverso la modalità di relazione con la fotografia/documento, che Yumi introduce il suo discorso. È dunque prima di tutto l'intenzionale distorsione del realismo di cui la fotografia originaria per statuto è portatrice, la prima spia che Yumi Karasumaru ci suggerisce a proposito delle relazioni con il suo contesto di origine, la sua rilettura di esperienze traumatiche per l'intera collettività nel caso di Hiroshima o una lettura del presente come nel caso del ritratto delle adolescenti di Tokyo o uno sguardo di attaccamento e di distanza come nel caso delle foto di famiglia. Il colore rivela infatti la doppia anima di queste immagini, il desiderio di confronto, ma allo stesso tempo, a causa della distanza, l'impossibilità di viverlo integralmente. La condizione ambigua prodotta dalla distanza è mostrata in tutta la sua evidenza: che si tratti di distanza di chilometri o di anni, è l'unica possibilità che ci consente di recuperare una visione di insieme delle situazioni e il paradosso inquieto a cui l'artista dà visibilità consiste in questo inevitabile sbilanciamento nell'una o nell'altra direzione.
    Il ciclo dei lavori su Hiroshima, dove l'artista assume intenzionalmente il ruolo di testimone secondario, è reso possibile proprio dalla distanza, è la distanza che rende possibile la rappresentazione – inevitabilmente deformata – di immagini a lungo a considerate letteralmente oscene.
    Nel ciclo di lavori realizzato a partire dalle foto di famiglia, lo sguardo si concentra sulla propria identità e sulle connessioni con la memoria personale: i protagonisti sono rappresentati in posa e in abiti tradizionali, elementi che restituiscono sicurezza, ma anche in questo caso la scelta cromatica distorce l'affetto album di famiglia insinuando l'inquietudine accennata in precedenza. Ritorna dunque anche su un piano privato lo stesso punto non semplice da assumere, la stessa lacerazione tra il desiderio di essere parte di un processo di trasformazione dal di dentro ma il non poterne cogliere le ragioni che non attraverso la presa di distanza. Analogamente nelle immagini delle teen ager della Tokyo di oggi convivono clima da fumetto e una profonda malinconia a colori dove sorge naturale il pensiero che la crescita di tale senso vuoto sia una conseguenza inevitabile di una ferita al cuore che se l'accelerazione del progresso ha certamente contribuito a far cicatrizzare sono ancora molte le zone d'ombra sulle quali è urgente non smettere di interrogarsi. di Emanuela De Cecco